Recentemente le pagine del Corriere della Sera hanno ospitato un indiretto dibattito tra gli architetti Fuksas e Gregotti, riguardante l’urbanistica italiana e la megalopoli contemporanea. Si discute sulla città, sulla sua forma, sul controllo del suo sviluppo e delle sue dinamiche. Fuksas critica, in modo sommario e sbrigativo, i risultati dell’urbanistica “di sinistra” e cita come esempio negativo il quartiere Zen di Palermo, ideato da Vittorio Gregotti. Quest’ultimo, forse, avrebbe potuto anche non raccogliere l’inutile provocazione, ma ha voluto difendersi.
Gregotti ha dalla sua i tempi che furono, le utopie sociali dei decenni postbellici, i rimasugli delle operazioni di edilizia pubblica e di organizzazione urbana di matrice razionalista. I suoi errori sono, in parte, frutto del contesto in cui sono nate, della speranza di poter, con l’architettura, modificare determinate dinamiche politiche, economiche e sociali. Ha anche, dalla sua, l’errore di non aver capito che i poteri politici ed economici si sono, da sempre, serviti dell’architettura per creare un ordine sociale ad essi confacente e conveniente. L’adeguamento a determinate dinamiche di potere può essere stato cosciente o meno, e non è a noi giudicare se questi colossi architettonici sono belli o brutti: il risultato è ovvio anche ad occhi inesperti e gli esperimenti di concentrazione sociale sono generalmente falliti, in Italia come altrove. Se, però, errare è umano, perseverare è, come si sa, diabolico. Gregotti non pare affatto aver cambiato stile e atteggiamento.
Fuksas che cosa ha dalla sua? Il gesto magico del genio creativo che in un secondo intrappola graficamente una nuvola del cielo? Forse i tempi dell’architetto demiurgo sono finiti. Forse le mani sulla città si possono, effettivamente, mettere ancora, ma la città ha dimostrato che sfuggirà sempre al controllo, che scivolerà tra le dita di teorici pianificatori, perché la molteplicità di fattori che ne condizionano la spazialità non potrà mai essere convogliata in un’unica direzione. Ingenuo e puerile credere il contrario, oggi, con lo spazio ed il tempo che non stanno più all’interno di nessuna definizione, con l’infinito nel computer di casa di ognuno di noi, con la diffusione a tappeto di informazioni, nozioni e conoscenze che rendono già vecchio e superato ogni pensiero ancora in nuce. Banale e superficiale immaginare che, come sostiene l’architetto romano, l’ideale abitativo può essere ancora “una piccola casa con una tettoia, magari fatta di semplici canne”. Sarà anche una prospettiva più umana, ma è decisamente anacronistica: i cittadini del mondo, i globalizzati del terzo millennio, non vivono senza un minimo di tecnologia, senza la parabola, il pinguino rinfrescatore, il cellulare. Non si può parlare di strumenti né di strategie in una realtà in cui un cantiere può restare aperto per decenni. Non si può più parlare di urbanistica, perché è una disciplina che, ora come ora, non ha alcun senso. La grande dimensione favorisce la speculazione edilizia e il burocratismo, sia essa costruita di cemento o vestita di raffinata tecnologia, di un purismo soft prodotto dal linguaggio digitale.
La grande dimensione, sia quella gregottiana che quella virtuale di Fuksas, porta inevitabilmente a realizzare quei muri e recinti, quelle gabbie architettoniche, che condizionano la città e i suoi abitanti. In entrambi i casi i cittadini sono concepiti non come soggetti fruitori dello spazio, ma come semplici oggetti, oggetti mobili, necessari alla vita dell’organismo architettonico e urbanistico.
Non esiste, in architettura come nella realtà, LA risposta con la R maiuscola; esistono delle ipotesi, valide nelle dimensioni del "qui" e dell’"ora". Servono nuovi atteggiamenti mentali, una sensibilità capace di cogliere e valorizzare le minime differenze, di recuperare e ricucire le piccole storie, di leggere nei tracciati urbani il loro passato ed il loro futuro, un futuro prossimo capace di essere futuribile. Il protagonismo deve andare in cantina in nome di un nuovo individualismo, affatto egoista, consapevole, attento alla varietà dei problemi da risolvere, aperto allo scambio, eterogeneo e dinamico. Solo la modestia e la contingenza possono liberarci dalle “firme” e dalle “star” del mondo architettonico, a favore della molteplicità e della varietà del costruito che ci circonda.
Tutto questo, naturalmente, a mio modesto parere.
notes
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Artigo originalmente publicado em Arch'it – www.architettura.it – em 27 de julho de 2001. Tradução de Paulo Dizioli e Valentina Moimas
[publicação: setembro 2001]
Francesca Pagnoncelli, Milão Itália