Sérgio Hespanha / Federico Calabrese: Cosa vuol dire essere napoletano?
Cherubino Gambardella: Vuol dire amare l’imperfezione perfetta e cioè essere capaci di guardare geografia, storia e persone in modo inclusivo e tollerante, vuol dire essere anche bulimici di immagini e di rapporti umani, vuol dire- infine- essere molto radicati in un luogo ma anche essere prontissimi a lasciarlo per portarsene appresso un ritratto personale.
SH / FC: Cosa vuol dire essere un architetto napoletano?
CG: Vuol dire comporre senza regole preconcette vuol dire farsi spazio tra incarichi impossibili con budget trascurabili, vuol dire fare sempre architettura con quello che passa il convento e cioè usando la sterminata massa di immagini che la città ci offre come fonte di manipolazione e di sabotaggio.
SH / FC: Come vedi Napoli?
CG: Come una sequenza di immensi spalti dove la natura è sormontata dalla costruzione, il mare, le grotte, i palazzi sono una sola sezione verticale.
Questo vale in modo traslato anche per quella che ho chiamato antinapoli la città che non guarda il mare: l’altra napoli , quella delle Occasioni di Rosa di Salvatore Piscicelli e di Secondigliano costruita su grandi dighe abitate, navi arenate nel verde abbandonato su cui potremmo sempre depositare segni.
SH / FC: Cosa evidenzieresti nella storia, nella cultura, nella storia urbana napoletana?
CG: Adoro Ferito a Morte di Dudù La Capria e Gesù fate luce di Domenico Rea, preferisco la Napoli lazzarona di Raffaele Viviani a quella faconda e compiuta di Eduardo De Filippo. Ricordo con nostalgia la città bellissima che ritrovai tornando da Roma durante il primo mandato di Bassolino come sindaco. Napoli era ricomposta solo con parti di se stessa e rimessa in valore come una promessa, purtroppo non mantenuta. Adoro la scacchiera in pendenza dei quartieri Spagnoli (Fig B) e l’azione dura e autoriale dell’architetto Ferdinando Manlio quando disegnò per il Vicerè Pedro da Toledo l’impianto in pendenza di questo ambito urbano fatto per crescere su se stesso con un avvitamento tutto denso di sovrascritture.
Mi piace che l’architetto abbia fatto finire tutto questo nell’immenso canyon nobiliare definito dagli altisonanti palazzi di Via Toledo.
SH / FC: Come vedi l’architettura prodotta a Napoli?
CG: Bellissima. Dai quartieri popolari mirabilmente imperfetti e meritevoli di una riscrittura che li accompagni nel presente senza troppi stravolgimenti o vezzi, alla Cappella Pontano (Fig C) di pietra scura e marmo. Da Santa Maria del Parto a Palazzo Medina come la Capria ribattezza il palazzo Donn’Anna (Fig D) in Ferito a morte. Amo anche la conca densa dei centomila balconi della speculazione edilizia, e gli sbalzi su pilotis di alcune enclave del quartiere Chiaia come Parco Comola Ricci o Posillipo moderna su cui nel 1999 ho scritto un libro decisivo per la mia poetica di architetto poi tutta centrata su una reinterpetazione anarchica delle poetiche del banale.